Roma, 25 gennaio 2022. Rome Business School, istituto di formazione post-universitaria parte del network Planeta Formación y Universidades creato nel 2003 da De Agostini e dal Gruppo Planeta, ha pubblicato la ricerca “Il debito pubblico in Italia: quali scenari post-pandemia?” , a cura di Valerio Mancini, Professore e Direttore del Centro di Ricerca di Rome Business School, Leila Chentouf, Program Director del Master in International Management (MIM) di Rome Business School ed Ekkehard Ernst, macroeconomista presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. La ricerca esamina l’aumento del debito pubblico nel mondo causato dalla pandemia da Covid-19 e il Paese Italia nello specifico, in quale misura e con quali strumenti il debito italiano dovrebbe essere utilizzato per sostenere la crescita economica.
La ricerca evidenzia come il debito mondiale totale sia aumentato di 28 punti percentuali sino ad arrivare al 256% del Pil globale nel 2020. L’aumento del debito è particolarmente marcato nei Paesi avanzati, dove il debito pubblico è passato da circa il 70% del Pil nel 2007 al 124% del Pil nel 2020. Nel caso dell’Italia, secondo il Fondo Monetario Internazionale, il debito è salito dal 134,6% del Pil, nel 2019, al 157,5%, nel 2020. Quest’anno crescerà ancora arrivando a toccare il 159,7% (circa 2.569 miliardi di euro), in peggioramento rispetto alla stima dello scorso ottobre, quando il Fondo aveva previsto un debito al 158,3%.
Secondo le stime più recenti, circa un terzo del debito pubblico italiano è in mani estere e nel suo insieme il sistema Italia riporta un rapporto debito/Pil superiore al 160%. Questo crea un forte squilibrio per l’intero sistema a causa anche della forte tassazione resa necessaria per supportare la spesa pubblica e ripagare gli interessi sul debito. Alcune regioni italiane però si distinguono: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana, Marche e Piemonte hanno un debito/Pil intorno all’80%, il che rende il loro sistema economico migliore di quello tedesco e in linea con i Paesi europei più virtuosi. Di contro, il Meridione ha invece un debito/Pil del 230% con punte di oltre il 300%. Le migliori performance si trovano in Lombardia (71,9%), mentre il dato peggiore spetta alla Calabria (305,3%). Il divario Nord/Sud è evidente, ed è destinato ad aumentare.
Non solo, “il debito pubblico in Italia è un debito cosiddetto alto, che si finanzia ad un tasso basso. Questa situazione, che, a prima vista, sembra complessa, porta a mettere in dubbio la sostenibilità stessa del debito”, afferma la professoressa Chentouf, una delle autrici della ricerca. È comunque necessario sottolineare che questo debito è stato contratto in un periodo di alti tassi d’interesse: l’Italia si sta rifinanziando all’1%, il che significa che la situazione è confortevole, da questo punto di vista.
Un altro fattore da considerare per quanto riguarda la solvibilità del Paese, è la nazionalità dei titolari del debito stesso: il debito pubblico detenuto da investitori nazionali è meno rischioso del debito pubblico detenuto da investitori stranieri, che sono per definizione più imprevedibili. Nel caso dell’Italia solo il 30% di esso è detenuto da investitori stranieri. Questo livello è ancora ragionevole rispetto per esempio alla Francia, dove nel 2017 il 56% del debito pubblico era detenuto da non residenti.
Insieme all’Italia, il Giappone, rimane uno dei paesi avanzati più indebitati, con il più alto debito pubblico in percentuale al Pil. Nel 2019, il Giappone ha raggiunto la cifra del 238% di debito pubblico e resta in testa anche in termini di debito pro capite, con una media di 80.447 euro di debito per ogni cittadino giapponese. L’altro Paese con il debito pubblico più alto in relazione al suo Pil è Singapore, con un punteggio di 110,9%, l’importo più alto della media dei Paesi sviluppati, avendo un piccolo numero di abitanti e un debito pro-capite di 54.000 euro nel 2017.
La pandemia ha causato una grave crisi economica globale e l’aumento dell’inflazione. Diverse attività economiche non erano più consentite, molte altre attività rimasero in funzione, le economie avanzate come l’Italia fornirono generose misure di sostegno – la gente continuò a spendere, semplicemente non in servizi ma in beni per esempio legati alla salute e all’informatica. Le continue interruzioni delle attività economiche, i picchi di domanda in settori specifici, le difficoltà di approvvigionamento, i prezzi di container alle stelle, tra i vari fattori, hanno portato ad aumenti dei costi che hanno alzato, secondo le stime della Banca dei Regolamenti Internazionali, da uno a tre punti percentuali il tasso d’inflazione nel 2021. Non solo, secondo le ultime stime dell’International Labour Organization (ILO), all’inizio del 2022, l’offerta globale di lavoro è oggi di circa un punto percentuale al di sotto del suo livello prima della pandemia ed era ancora più bassa al culmine della pandemia l’anno scorso.
Come conseguenza della carenza di manodopera, la pressione sui salari e sui prezzi è aumentata. Negli Stati Uniti, i lavoratori con istruzione non universitaria hanno visto l’anno scorso uno dei più alti aumenti salariali degli ultimi decenni. Nell’area dell’euro, la popolazione attiva è approssimativamente scesa di 1,5 milioni di lavoratori, calo causato da un insieme di fattori, tra cui l’invecchiamento della popolazione e la pandemia, con l’Italia e la Germania che sono stati i maggiori contributori a questo calo dell’offerta di lavoro. Finora, tuttavia, l’inflazione salariale è rimasta docile in Europa. Anche se, dato che i mercati del lavoro si restringono e l’inflazione corre alta, è probabile che il costo del lavoro acceleri anche qui, e l’aumento del potere di mercato delle imprese impedisca aumenti salariali persistenti, particolarmente tra i lavoratori a basso salario.
Si teme infatti che le aspettative di inflazione aumentino, portando a un divario salari-prezzi, visto per l’ultima volta negli anni ’70, che può diventare rapidamente difficile da controllare.
Quale sarebbe la possibile via per ridurre il debito degli Stati membri? Le diverse possibili soluzioni volte a ridurre o risolvere il forte aumento del debito pubblico e le sue conseguenze, sembrano molto costose o non affatto fattibili. Sembra infatti improbabile che qualsiasi paese dell’area dell’euro sia in grado oggi di ristrutturare il suo debito o che voglia scegliere di optare per un vero e proprio default.
Data la lieve ripresa delle economie dell’unione, il piano della BCE è quello di rilasciare i fondi del Pandemic Emergency Purchase Programme al mercato aperto, obbligando i governi a trovare opzioni di finanziamento – possibilmente più costose – nei mercati internazionali. Il programma politico implicito è quindi quello di costringere i governi a politiche di austerità per risparmiare sul debito pubblico e sui pagamenti di interessi potenzialmente più alti.
Secondo Valerio Mancini, “una strategia migliore e più fattibile sarebbe quella di rilasciare il PEPP in uno special purpose vehicle, possibilmente come parte di uno sforzo paneuropeo per ristrutturare il debito nazionale legato al Covid, simile all’attuale ESM Pandemic Crisis Support”. Quest’ultimo è stato creato specificamente per sostenere i paesi membri dell’UE nel supportare il loro sforzo di recupero attraverso una reciproca emissione di titoli di stato, e risulta un pezzo mancante nella costruzione monetaria e finanziaria europea che potrebbe contribuire a rafforzare il bilancio del settore pubblico dell’intera zona euro”.
Nello specifico, guardando all’Italia, secondo le stime di Oxford Economics, l’impulso fiscale destinato all’Italia dei fondi provenienti dal programma di rilancio NextGenerationEU consentirebbe al rapporto debito/Pil di andare al di sotto della soglia del 140% entro il 2025. Il programma è tuttavia ambizioso, affidato com’è all’obiettivo di circa 45 miliardi di crescita extra nei prossimi tre anni, alimentato anche da un rilancio degli investimenti privati che, secondo il quadro macroeconomico programmatico, salirebbero del 27%. I fondi europei saranno una parte importante del rilancio dell’economia e dell’abbassamento del debito, ma è necessario uno sforzo a tutti i livelli, istituzioni, pubblico e privato.
L’Italia si trova oggi in una situazione favorevole senza precedenti, grazie al sostegno economico del Recovery Fund, tuttavia soffre di una mancanza strutturale di competitività e produttività. Particolarmente limitante per l’Italia è l’alto costo del lavoro aumentato del 15% tra il 2009 e il 2019 (Eurostat).
“Il debito pubblico dovrebbe essere usato per risolvere molti di questi problemi, per aumentare il potenziale produttivo dell’Italia, per finanziare le infrastrutture pubbliche, il sistema educativo, la ricerca e l’innovazione al fine di sostenere la crescita e ridurre il livello del debito”, afferma Chentouf.
In particolare, ci si deve concentrare su: ristrutturazione e razionalizzazione della spesa pubblica e sul bilanciamento dei conti pubblici, con l’obiettivo di ricercare quel surplus necessario a garantire un margine sufficiente per affrontare le previsioni dell’era post-covid.
Secondo l’ISTAT, l’indebitamento netto è balzato all’8,9% nel 2020, appena meglio delle stime del governo (-9%) e dopo il +0,3% registrato nel 2019. Il 2021 si è chiuso con rimbalzo del +6% e attualmente la Nota di aggiornamento al DEF (NADEF) prospetta uno scenario di crescita continua dell’economia e di graduale riduzione del deficit e del debito pubblico nei prossimi anni.
Alcuni possibili macro-trend futuri per Bankitalia sono: il divario Nord/Sud è destinato ad aumentare e gli interventi nazionali previsti dal PNRR avranno tempi più lunghi e saranno protagonisti della crescita solo dal 2023.
Secondo il prof. Ernst: “È evidente che la parola chiave oggi, di fronte a una pandemia globale senza precedenti e con un fondo di recupero sostanziale, sia osare: riformare, trasformare e innovare”.