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Intervista a Diego Masi, autore del libro "Exploding Africa"

 

Comunicazione, politica e solidarietà: questo è il profilo di Diego Masi.

Ha iniziato a lavorare in pubblicità e ha fondato nel 1972 “Promotions Italia” che è diventata la prima agenzia di marketing promozionale in Italia per 37 anni. Diego Masi è stato presidente di ASSOCOM, la principale associazione di tutte le agenzie di comunicazione. Masi fu anche coinvolto in politica: dal municipio di Milano per due mandati (1985-1993) al Parlamento nazionale italiano nel ’94 come presidente di un gruppo parlamentare di deputati e viceministro degli affari interni. È stato presidente di Action Aid Italia per 6 anni, ora è presidente di Alice for Children by Twins International, una Ngo che opera nei bassifondi di Nairobi per aiutare i bambini vulnerabili, e di  Agricola Pro Bono che recupera cibo fresco da destinare ai pasti per senzatetto. Masi è anche autore di molti libri. I più recenti sono: “Go green- a way to green communication”; “Expo 2015; the Italian challenge”; “From predators to entrepreneurs- corporate giving and Social Innovation” e l’ultimo “Exploding Africa” sul futuro del continente africano.

Perché il titolo “Exploding Africa? In che modo il continente è “in esplosione”?

«Innanzitutto, da un punto di vista demografico: parliamo dell’unico continente che contribuisce alla crescita demografica del pianeta, ma che, contestualmente, è fuori dallo sviluppo, ai margini del gran ballo della globalizzazione. Oggi il continente ha un miliardo e 100 milioni di abitanti e nel 2050 saranno due miliardi e mezzo. La ricaduta riguarda anche l’urbanizzazione, che aggiunge un ulteriore peso al rischio sociale: il 70% degli africani vivrà nelle città. Il continente è attraversato da guerre e pesanti cambiamenti climatici, mentre gran parte degli Stati è in mano a rapaci dittatori. In media il reddito pro-capite è di circa 5 dollari al giorno, ma la curva di concentrazione della ricchezza è altissima. Solo il 6% sfiora la soglia dei 10 mila dollari annui».

«Mediamente il PIL del continente sta salendo del 3,5-4%, ma è insufficiente. Una crescita così bassa e con l’uso indebito che i potenti fanno delle ricchezze naturali, sarà quasi impossibile costruire un processo virtuoso sul modello cinese, che è cresciuto ogni anno a doppio digit, creando ricchezza interna: in definitiva, in Africa il mancato sviluppo congela il reddito. L’essenza di questo mondo è la povertà: oltre il 70% della popolazione, specie nel Sub-Sahara, vive con meno di un dollaro al giorno».

Ma c’è un piano di sviluppo?

«Dinanzi a questa giovane popolazione (ricordo che il 60% della popolazione africana è composta da giovani, spesso “formati” ma disoccupati) l’Africa non ha piani. È in grado di offrire soltanto modeste opportunità. Le ricchezze naturali, sovente sprecate o svendute, non fanno intravedere grandi iniziative legate all’occupazione giovanile. La stessa avanzata della robotica e la conseguente automazione del lavoro, di cui la gente comune non ha neppure sentore, peggioreranno di molto la situazione. L’Africa crea ricchezza per 2.328 miliardi di dollari (meno della sola Francia!), ma un terzo (738 miliardi) proviene dai Paesi del Nord, Libia a parte, che sono i più avanzati. Quel che resta di questa ricchezza, 1.590 miliardi, è prodotta in circa 44 Paesi dell’area Subsahariana, in modo però disomogeneo».

Come si inserisce l’Europa in questo contesto?

«Il nostro continente continua a non considerare un aspetto importante: il Pil di tutta l’Africa vale quanto la nostra Italia. Bisognerebbe, quindi, partire da questo concetto e arrivare a una previsione obiettiva: i flussi umani in uscita aumenteranno sempre più. L’emigrazione rimane l’unica possibilità per giovani, uomini e donne, che non vedono un futuro nel proprio paese. Perché, parliamoci chiaro, un futuro nei termini che si presentano adesso, non c’è. Nel 2013 gli africani emigrati hanno inviato a casa ben 60 miliardi di dollari, pari a circa l’equivalente degli aiuti pubblici allo sviluppo. Per loro è un meccanismo vincente: partono i più forti e l’intero villaggio, cioè la cellula dell’organizzazione sociale, si mobilita per supportarli economicamente perché sa che il favore verrà restituito con gli interessi».

Da che parte ricominciare?

«L’Europa, invece di esorcizzare il problema chiudendo le porte e i porti, alzando muri e litigando sui migranti per mitigare le nostre paure, dovrebbe attuare un piano di “adozione” dell’Africa, senza più offrire aiuti a pioggia per mettersi il cuore in pace, ma portando le sue aziende, lavorando da loro e con loro, coniugando la parola collaborazione pagata con le ricchezze di cui il continente è proprietario. Dovrebbe agire un po’ come da tempo sta facendo la Cina, la cui mano si sta allungando sul Sudan, Congo, Mozambico e Zambia. Dovremmo investire per mettere in sicurezza questo continente e farlo diventare una costola per le riserve di cibo, materie prime, energia. In questa partita se l’Africa perde, si trasforma in un incubo per l’Europa e per l’Italia».