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Empowerment al femminile: dalla consapevolezza alla community.

Con l’evoluzione della knowledge economy il panorama di riferimento delle aziende è mutato: la radicale trasformazione imposta dalla globalizzazione ha determinato un cambiamento nei processi decisionali del management, ribaltando paradigmi precostituiti.

Oggi il successo di un’organizzazione non è più determinato solo dal possesso di capitale e di risorse materiali: il vero punto di forza è rappresentato dal capitale umano posseduto. In questa prospettiva il capitale intellettuale e la gestione dei talenti costituiscono gli asset fondamentali, in grado di assicurare un vantaggio competitivo perché portatori di un quadro valoriale che pone le competenze al centro del processo produttivo.

Le tre C: Competenze, Cuore, Coraggio

Il tema è uno dei più discussi in materia di organizzazione del lavoro, per approfondire la tematica abbiamo incontrato Darya Majidi, docente dell’International Master in Data Science di Rome Business School che ci ha detto:

“Spesso a coloro che si affacciano al mondo del lavoro vengono richieste le cosiddette hard skills: è chiaro che queste competenze sono necessarie per tutti quei ruoli in cui è indispensabile il possesso di conoscenze specifiche. Ritengo, sotto questo punto di vista, che non sia corretta la recente tendenza di cercare di sostituire le hard skills con le soft skills, che attengono alle caratteristiche personali e relazionali di un individuo come, ad esempio, l’affidabilità, la capacità di negoziazione, di risolvere problemi e non ultima l’intelligenza emotiva. Per la mia esperienza è molto importante ricercare le competenze distintive che ognuno di noi possiede e che ci rende unici. Se quest’ultime coincidono con il ruolo assunto sul luogo di lavoro possiamo certamente affermare di aver ottenuto la quadratura del cerchio. A tal proposito ho elaborato la mia proposta delle mie tre C: Competenza, Cuore, Coraggio. Il cuore è inteso come sinonimo di passione ed entusiasmo per il lavoro svolto, ma anche l’incoscienza di uscire dai limiti del proprio perimetro, quando la componente più emozionale dell’individuo prende il sopravvento sulla parte più razionale. Infine, con il coraggio si identifica la volontà di scalare la piramide di Maslow, il modello motivazionale dello sviluppo umano basato su una gerarchia di bisogni disposti, appunto, in piramide, che guida ogni azione dell’uomo che, partendo dalla base con i bisogni fisiologici, i più elementari, arriva al vertice con i più complessi che portano alla realizzazione personale. E si sa che più si sale nelle piramidi aziendali, più diminuisce la sicurezza perché la competitività ed il potere portano spesso alla solitudine. E’ quindi importante avere coraggio nell’agire nel contesto di riferimento.”

Balance vita professionale e vita privata

Il mondo del lavoro ha conosciuto una significativa trasformazione durante la crisi sanitaria da COVID-19, che ha reso necessaria una profonda rimodulazione delle organizzazioni.

Il panorama che ne è scaturito ha generato quello che possiamo definire una “nuova normalita’”- che ora è messa in discussione dai Governi centrali – dove i lavoratori di tutto il mondo hanno beneficiato, grazie alle tecnologie informatiche e alla digital transformation,  di una modalità ibrida o di remoto totale che ha reso il lavoro flessibile, permettendo di conciliare tempi lavorativi e tempi familiari. La cosiddetta flessibilità spazio-temporale ha, infatti,  consentito di usufruire di tempi supplementari dedicati  alla vita privata a cui i dipendenti non vogliono più rinunciare.

 “Le persone si sentono realizzate quando il patto tra l’azienda e il dipendente è un atto semantico biunivoco, nel senso che l’organizzazione non impone il percorso, il ruolo, ma valorizza la risorsa secondo le competenze possedute in coerenza con i propri valori. Possiamo considerare la pandemia da COVID 19 come uno spartiacque: le giovani generazioni hanno in un certo senso ristabilito un nuovo ordine, dove la vita personale riveste ruolo più importante rispetto al passato. Le aziende per essere al passo con i tempi dovranno necessariamente tener conto di questa nuova balance tra vita privata e vita professionale. Lavorare in un contesto dove si è apprezzati per la propria esperienza e per il proprio know- how fa aumentare la fiducia, l’engagement, il benessere, la produttività. Un esempio che ho potuto constatare personalmente a Bali, considerata l’isola felice dei nomadi digitali. Qui ragazzi giovanissimi, coltivando i loro hobby, lavorano in società internazionali, dove il concetto della competenza accessibile è tangibile e dove si è superata la rigidità concettuale del lavoro in presenza.

Prefiguro, ed è un auspicio, che il futuro vada proprio in questa direzione, perché il mindset è l’accessibilità, le competenze, le conoscenze e le abilità.”

Empowerment al femminile: tra il soffitto di cristallo e il gradino rotto

Nelle ultime decadi si è assistito ad una crescita dell’interesse istituzionale verso le questioni di parità di genere. Il percorso è ancora lungo ma il processo di affermazione della donna nel mondo del professionale si è avviato anche grazie ad una accelerazione nella scolarizzazione superiore.

Le donne nel mondo del lavoro stanno faticosamente superando i ruoli subalterni a cui la società li ha culturalmente relegate, ma pagano ancora troppo spesso lo scotto di dover scegliere tra la maternità e la realizzazione professionale. La conferma viene dall’Istat, che secondo l’ultima ricerca sulla “conciliazione tra lavoro e famiglia” elaborata con i dati raccolti nel 2018 rivela che una mamma su 9 non ha mai lavorato per prendersi cura dei figli. La percentuale è dell’11,1, contro una media europea del 3,7 per cento.

“Mi auguro che il ruolo del bilanciamento tra vita professionale e vita privata non sia un problema solo delle donne. E’ necessario agire le leve di un shift culturale per una reale inclusione lavorativa al femminile, che incentivi la flessibilità, il job sharing perché le donne siano messe nelle condizioni di coltivare i propri talenti senza rinunciare alla famiglia. Ancora oggi, soprattutto in Italia le donne devono superare non solo l’handicap del “soffitto di cristallo” ma anche del “gradino rotto” della maternità, che impone loro un rallentamento di carriera, soprattutto nelle piccole aziende private. Il fine dell’associazione Donne 4.0 che ho fondato nel 2021, per superare il gender gap, è quello di fare Community per cogliere tutte le opportunità offerte dall’industria 4.0. Quale fondatrice parteciperò a un evento voluto dalle Nazioni Unite proprio sul tema dell’empowerment delle donne nella giornata dell’8 marzo della Women International day. Le donne hanno un grave difetto: soffrono della sindrome dell’impostore: si autolimitano e temono sempre di non essere adeguate al contesto, qualsiasi esso sia. E’ un retaggio della cultura patriarcale, devono invece imparare a fare community, acquisire di più la consapevolezza del loro talento, del valore aggiunto che apportano nel mondo del lavoro per specificità proprie e forti motivazioni intrinseche. Le nuove generazioni hanno superato il concetto di Eva contro Eva e iniziano a fare squadra, clan. Ecco, se volessimo sintetizzare in un concetto sempre riferendomi alla proposta enunciata delle tre C, Competenze, Cuore e Coraggio, per le donne aggiungere altre due C: Consapevolezza e Community. A tal proposito mi piace richiamare un proverbio persiano che recita “le gocce si uniscono e fanno oceano”. In questo dovremmo prendere esempio dalle donne iraniane, che con coraggio, rischiando la propria vita combattono contro una cultura, che le vuole invisibili, per i propri diritti e per affermare la loro libertà di pensiero e di azione.”

I NEET

 NEET è l’acronimo inglese di Not in Education, Employement or Training. Il termine è stato coniato nel Regno Unito per la valutazione dell’efficacia dei processi di transizione scuola-lavoro.

A partire dal 2010 l’Unione Europea ha adottato il tasso NEET per indicare il fenomeno legato all’occupazione giovanile. Il nostro Paese secondo le ultime stime di EuroStat del 2020 presenta la più alta percentuale di NEET dell’area UE nella fascia d’età 15-29 anni, attestandosi su un preoccupante 23% –  la media europea è del 13.3% –  dopo Grecia e Bulgaria. Se i riflettori si indirizzano alle donne la percentuale arriva al 24,3%.

“In Italia non possiamo creare una distinzione tra giovani bravi e belli e giovani incapaci. Dobbiamo avere invece l’onestà intellettuale di affermare che NEET sono un prodotto della società che non ha avuto la capacità di a far capire alle nuove generazioni le opportunità offerte dai lavori del futuro, non fornendo loro indicazioni corrette.

Quindi è chiaro che un giovane che studia e stenta a trovare lavoro si trasforma in un giovane arrabbiato. Si deve superare il concetto di guardare solo al voto conseguito con la laurea: si devono ricercare le competenze specifiche, che determinano la differenza tra individui. Le aziende innovative cercano persone intellettualmente vivaci, in grado di stare con gli altri: in questo momento si assiste al fenomeno del digital mismatch: ci sono tanti lavori disponibili e i ragazzi non ne sono a conoscenza! In Italia, inoltre, abbiamo anche il problema degli stipendi non equiparati agli standard europei, primo motivo della fuga all’estero dei nostri talenti.”

Best Practice

“In base alla mia esperienza professionale approvo quelle aziende che ammettono di essere ai primi passi di un percorso per il superamento del gender gap. Di queste organizzazioni apprezzo la vision e la loro consapevolezza di dover raggiungere quel determinato obiettivo. Non amo, al contrario, quelle organizzazioni che urlano slogan sulla parità di genere e che invece nulla hanno fatto in merito e, a guardar bene, le leve del potere sono agite unicamente al maschile.

Guardo con ammirazione a quelle aziende che hanno la capacità di parlare col mondo della ricerca, quindi con le università, per creare un’osmosi per un accrescimento biunivoco,  preziosa intersezione tra l’universo dell’educational e quello del business.  Mi piace il clima che si respira alla Roma Business School perché l’ambiente è realmente internazionale, con ragazzi che provengono da tutto il mondo e che permettono una full immertion di esperienze interculturali che, innegabilmente, consentono di sviluppare le soft skills. Più in generale mi entusiasmano tutti gli ambienti che consentono di superare le asimmetrie, di sesso, di età, di etnie e dove gli sterotipi spariscono perché si respira il desiderio dell’ascolto reciproco.”

L’importanza della digitalizzazione

La costante crescita dell’industria legata all’innovazione digitale permetterà lo sviluppo di un nuovo modo di fare “impresa”: i processi innovativi interesseranno soprattutto  il capitale intellettuale sul quale si  investiranno sempre maggiori risorse.

Io ritengo che la digital transformation porterà una reale rivoluzione nel mondo del lavoro: l’automazione delle macchine permetterà alle persone di essere libere.  Ciò che farà la differenza sarà proprio l’individuo con i suoi valori, con la sua etica, la sua morale. Si creerà un circuito virtuoso dove il carisma, la leadership, l’empatia, insomma le competenze distintive che ci rendono unici rappresenteranno il volano di un cambiamento verso un mondo più a misura d’uomo.”

Darya Majidi

Nata in Iran, è un’imprenditrice tecnologica con laurea in informatica, master in economia e master in leadership femminile. È esperta di scienza dei dati, etica e intelligenza artificiale, con particolare attenzione agli aspetti di diversità e inclusione. È fondatrice e CEO di Daxo Group, una società di consulenza strategica per la trasformazione digitale, fondatrice e CEO di Daxolab, un incubatore di imprese e presidente dell’Associazione Donne 4.0. È stata assessore all’Innovazione del Comune di Livorno e vicepresidente di Confindustria Livorno. Attualmente è docente presso prestigiose università internazionali. È mentore, speaker e autrice dei libri “Donne 4.0” manifesto della Community Donne 4.0 e “Connected Sisterhood”.