Nonostante la situazione nei luoghi di lavoro sia migliorata negli ultimi anni, le discriminazioni rappresentano ancora un fenomeno diffuso in Italia e riguardano sfere su cui esiste una debolezza congenita, quali le differenze di genere, di età, di origine geografica o etnica, di abilità, di orientamento sessuale, di fede religiosa, e così via. Tali discriminazioni limitano le persone nel godimento dei propri diritti e nello sviluppo delle proprie competenze, creano disparità, indeboliscono la cultura organizzativa ed hanno un effetto nocivo sulla crescita economica delle Organizzazioni.
I comportamenti discriminatori professionali sono spesso frutto di una mancata conoscenza dei diritti e dei doveri nelle diverse fasi di un rapporto di lavoro. In Italia 4 lavoratori su 10 subiscono discriminazioni per l’età e quasi 3 su 10 per il genere. Sono questi alcuni dati emersi dall’indagine pubblicata ad aprile 2022 da Cegos, player internazionale nel settore Learning & Development, condotta su un campione di circa 4.000 dipendenti – di cui 500 italiani – e oltre 400 tra Direttori e Manager delle Risorse Umane – di cui 60 italiani – dal titolo “Diversity & Inclusion nelle aziende”. La survey ha coinvolto 7 Paesi: Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Portogallo e Spagna e Brasile. Sempre secondo lo studio Cegos, per i responsabili HR il primo fattore in assoluto (il 25%) di discriminazione sul lavoro è ancora legato all’età. Seguono le condizioni di salute (19%), genere (18%), aspetto fisico, livello scolastico e status sociale (16%). E’ interessante la diversa percezione dei dipendenti: per quest’ultimi è l’aspetto fisico il motivo principale di emarginazione e discriminazione, l’età, opinioni politiche e genere seguono in graduatoria.
Per approfondire la tematica abbiamo incontrato Luigi Costa Program Director del Master in Ethics, Diversity & Inclusion Management della Rome Business School che ci ha detto:
“In Italia, le aziende, in modo sempre più diffuso stanno comprendendo l’urgenza di definire politiche atte a migliorare l’ambiente lavorativo per incentivare l’inclusione e contrastare le eventuali discriminazioni. Infatti, in una recente indagine dell’Inaz, in collaborazione con Business International – Fiera di Milano, il 50 % dei vertici aziendali ritiene che investire in maniera consistente nelle politiche di contrasto alle discriminazioni può avere forti e positivi impatti anche sul business. Nonostante tale consapevolezza, però, il 63% del campione non ha ancora costruito un piano di iniziative atte a sviluppare delle politiche di diversità, equità ed inclusione. Il problema è soprattutto di ordine culturale: decidere di destinare del budget e porre in essere azioni a supporto dell’inclusione deve partire da una riflessione – in un certo senso anche da una messa in discussione dei propri comportamenti organizzativi – che permetta di acquisire consapevolezza rispetto a tali tematiche non solo da un punto di vista “culturale”, ma anche economico. Le aziende che investono in modo significativo in programmi di questo tipo vengono riconosciute positivamente dai propri clienti con una crescita potenziale del loro fatturato. Per lo sviluppo di tale consapevolezza gioca un ruolo fondamentale la leadership: la formazione del management dell’azienda può assicurare una maggiore presa di coscienza verso queste iniziative. Il percorso è ancora lungo ma si assiste ad una inversione di tendenza, come dimostrato dallo studio Refinitiv pubblicato nel 2021.”
Refinitiv, società internazionale che fornisce dati e infrastrutture dei mercati finanziari globali, ha pubblicato nel 2021 il “Diversity & Inclusion Index”, uno studio che analizza le performance delle società orientate alle politiche dell’inclusione e del contrato alle discriminazioni.
In questa classifica stilata prendendo in esame 11.000 imprese a livello globale – con tra le altre Telecom Italia, Intesa Sanpaolo, Bnl, Snam – il nostro Paese si piazza nella top ten delle 100 aziende virtuose che offrono ai dipendenti gli ambienti più inclusivi. Tema centrale è il benessere e lo sviluppo del lavoratore che si sostanzia anche con la creazione di politiche di welfare, in grado di sostenere le esigenze dei lavoratori in un momento di particolare crisi del contesto economico e sociale, offrendo servizi per lo svago, la cura delle persone, la famiglia, il benessere psicologico, ecc.
Negli ultimi anni, un numero sempre più ampio di Organizzazioni ha elaborato delle iniziative tese al miglioramento complessivo della qualità della vita dei propri dipendenti ed un migliore bilanciamento tra sfera lavorativa e vita privata.
In un certo qual modo i lavoratori si sentono maggiormente realizzati nel momento in cui percepiscono che l’Organizzazione si pone in ascolto delle loro istanze ed esigenze. Nell’ambito delle politiche di welfare ricadono tutti quei beni e servizi che vengono incontro alle esigenze del lavoratore ed allo stesso tempo offrono l’opportunità per le Organizzazioni di poter usufruire degli sgravi fiscali e contributivi. Queste iniziative possono rivelarsi anche importanti strumenti per aumentare l’attrattività dell’Organizzazione per i nuovi candidati e quindi acquisire nuovi talenti. Tale approccio è naturalmente valutato positivamente soprattutto dai più giovani, che sono maggiormente difficili da trattenere in un contesto che non li soddisfi pienamente.
“La finalità è quella di riuscire ad offrire tutta una serie di supporti e di soluzioni che possano permettere alle persone di lavorare meglio, in una dimensione più inclusiva, e allo stesso tempo di gestire in maniera più gratificante anche la dimensione privata. Sotto questo punto di vista lo smart-working non è più considerato un benefit, quanto al contrario una necessità, e le aziende non possono non tenerne conto. A mio avviso non esiste una ricetta unica applicabile a tutte le realtà, perché ogni azienda presenta elementi e specificità proprie. La soluzione giusta è la diretta conseguenza di una valutazione attenta rispetto ai propri obiettivi. Ovvio che, a prescindere da quale sia questa valutazione, le aziende che vogliono imboccare la strada della maggiore inclusività devono dotarsi di una serie di elementi imprescindibili. Il primo tra tutti è quello di avere dei manager dotati di un’intelligenza emotiva motivazionale. Tutto ciò non è semplice perché il manager stesso, a sua volta è oggetto di una serie di sollecitazioni da parte del top management. Naturalmente, però, altro elemento imprescindibile che si ricollega al tema della responsabilità, è avere una forza lavoro che si senta connessa con il management, perché il senso di appartenenza permette di raggiungere gli obiettivi con efficacia ed efficienza.”
La tipizzazione dell’età come motivo di discriminazione è un’acquisizione piuttosto recente nel diritto interno e comunitario.
“In Italia c’è un tema estremamente interessante, emergente negli ultimi anni, che è quello che riguarda la questione generazionale. Entro il 2025, quindi tra 2 anni, la generazione Z, ovvero i giovani che sono nati tra il 97 e il 2012, sarà quasi un terzo della forza lavoro globale. Questi ragazzi, rispetto ai genitori, hanno esigenze e aspettative completamente diverse, riguardo al modo di lavorare, che presuppongono, da parte delle aziende, avanzate politiche attive verso una maggiore apertura alle diverse abilità, ad una maggiore flessibilità spazio-temporale e soprattutto verso l’ascolto delle loro istanze. La pandemia da Covid-19 ha accelerato in un certo senso la creazione di un nuovo ordine, potremmo dire di nuova balance tra vita privata e vita professionale, ma ha anche generato fenomeni di stress all’interno della forza lavoro. Molte aziende stanno portando avanti delle politiche finalizzate a sostenere il supporto psicologico dei propri lavoratori. La Generazione Z è molto attenta al benessere psicofisico, ovvero quella condizione di equilibrio tra salute fisica e benessere psicologico.”
Il sistema produttivo italiano è diverso da quello di altri grandi Nazioni europee. Da noi la struttura portante del Sistema Paese, ritenuta fondamentale per rilanciare l’economia, è composta dalle piccole e medie imprese, le PMI, ovvero quelle realtà tra i 10 ed i 249 addetti, che rappresentano parte consistente del tessuto imprenditoriale italiano.
“Possiamo affermare che statisticamente c’è una maggiore propensione alla sensibilità rispetto a queste tematiche nelle grandi aziende, quelle maggiormente strutturate, dove esistono figure deputate a gestire programmi e budget. Non si può fare una distinzione meramente geografica, perché le dinamiche delle aziende hanno tutte diverse matrici interpretative, ma lo sbilanciamento tra il Nord e il Sud in termini di dimensione aziendale è noto. C’è da dire che in Italia si registrano anche isole felici, un pò a macchia di leopardo, che sono rappresentate dalle Start-Up. Realtà imprenditoriali innovative che si contraddistinguono non solo per il loro valore tecnologico, ma soprattutto per il capitale umano e cognitivo e per una organizzazione pressoché orizzontale con scarsa gerarchia. Qui i team sono caratterizzati per possedere skills volte all’inclusione, al problem solving e dove la flessibilità, intesa a 360 °, riveste una funzione fondamentale.”
“Da un punto di vista accademico trovo estremante interessante che la Rome Business School abbia introdotto un Master sulla diversità, l’inclusione e l’equità. E’ fondamentale che nel campo della formazione degli studenti si introducano tematiche di questo tipo, soprattutto se la formazione è indirizzata verso quelle figure professionali, penso ai manager, ai leader aziendali, ai professionisti HR e ai project manager, che possono determinare scelte e modifiche dei modelli di business. Le differenze, nelle aziende, devono sempre essere vissute come valore aggiunto.”