Siamo in un’epoca di trasformazione per il marketing e la comunicazione. I modelli che sino a pochi anni fa sembravano gli unici possibili oggi appaiono insufficienti o, addirittura, inadeguati. Siamo nel tempo del Permission Marketing che, a differenza dell’Interruption Marketing (per esempio gli spot televisivi), non si intromette nelle attività delle persone (risultando quindi molesto), ma permette a chi è interessato di avvicinarsi all’azienda e a ciò che offre in modo naturale, senza forzature.
In questo contesto, i contenuti svolgono un ruolo da leone. Se il content marketing è sulla bocca di tutti gli addetti ai lavoro, è perché funziona. La gente apprezza i contenuti utili e divertenti, e i brand sanno che i buoni contenuti portano engagement. Nel contesto di una strategia di content marketing, trovano spazio anche i branded content.
Partiamo dalla definizione: i branded content sono contenuti originali legati ai valori di un brand, in grado di divertire, informare e creare engagement. Devono essere contenuti che le persone in target sono contente di vedere e condividere senza essere forzate a farlo.
Articoli, webserie, video, cortometraggi, infografiche, fumetti: il branded content può assumere qualsiasi forma, l’importante è che colpisca le persone. È importantissimo il lavoro a monte: per produrre il contenuto giusto, è fondamentale uno studio strategico del target che permetta di individuare cosa può funzionare e cosa no. Inseriti in una strategia di marketing ben studiata, i branded content sono efficacissimi.
Prima di decidere forma e contenuto, il reparto marketing deve analizzare bene gli obiettivi da raggiungere, poi chiedersi cosa possa funzionare e dove: un contenuto video o un editoriale? Una webserie o una serie di infografiche? E su quali media veicolarli (per esempio: è più adatto Facebook o Linkedin).
Inoltre, se il contenuto non “parla” con la stessa voce del brand è inutile se non dannoso.
Altrettanto importante è l’analisi dei dati: un contenuto può essere realizzato con cura, ma se i dati ci dicono che non funziona, vuol dire che è inadatto al nostro target, e dobbiamo provare qualcos’altro.
Molte grandi aziende hanno sperimentato con successo i branded content. Vediamo qualche esempio.
Risale al 2013 la bellissima campagna Real Beauty di Dove. Una ricerca rivelò ai manager del noto brand di cosmetici che solo il 4% delle donne si considerava “bella”: la campagna, partendo dalla ricerca, aveva l’obiettivo di provare la differenza fra la realtà e la percezione della realtà. Il video mostrava alcune donne descrivere se stesse a un artista che le disegnava: lo stesso artista, in seguito, disegnava nuovamente le protagoniste attraverso la descrizione di un estraneo. Il risultato? 170 milioni di visualizzazioni su Youtube e un ritorno enorme per il marchio del gruppo Unilever.
Che dire poi di Lego? Il brand di mattoncini più famoso al mondo, tra videogiochi e il film, sa bene quanto siano redditizi i branded content quando fatti bene. Lego Movie ha incassato bene e ha ricevuto nomination per premi prestigiosi: per il 2017 è previsto uno spin-off, incentrato sulla figura di Batman.
Chiudiamo questa breve carrellata con il New York Times, che di recente ha acquistato l’agenzia di marketing Fake Love, specializzata in branded content. Non è certo una sorpresa: da tempo il NYT crede nei branded content. Lo scorso marzo ha acquisito anche l’agenzia Hello Society, un’agenzia specializzata nell’influencer marketing che sfrutta gli influencer per creare engagement attorno a contenuti specifici.
Piccole e grandi aziende, dunque, hanno scelto e sceglieranno i branded content per creare engagement attorno al brand e trasformare i prospect in clienti.