Roma, 13 luglio 2022. Rome Business School, parte di Planeta Formación y Universidades creato nel 2003 da De Agostini e dal Gruppo Planeta, ha pubblicato lo studio “Il lavoro in Italia: le sfide di dipendenti, imprenditori e startupper. Criticità, opportunità e trend futuri”. I ricercatori, Giacomo Salvanelli Crime Analyst e imprenditore esperto di innovazione, e Valerio Mancini, Direttore del Centro di Ricerca di RBS, analizzano lo stato dell’occupazione e il precariato in Italia nel contesto post-pandemico, l’importanza di sviluppare nuove skill e competenze per il mondo del lavoro 2.0, e gli scenari, le sfide e le opportunità del mondo delle startup in Italia.
La crescita dell’occupazione italiana ha raggiunto nei primi mesi del 2022 livelli che non si vedevano da prima della pandemia. Confrontando il trimestre marzo 2022-maggio 2022 con quello precedente (dicembre 2021-febbraio 2022) si registra un aumento del livello di occupazione pari allo 0,6%, per un totale di 136mila occupati in più. Tuttavia, è aumentato fortemente il precariato, rimane il divario di genere, il 24,5% dei giovani sono oggi disoccupati ed è in continuo aumento il fenomeno delle “grandi dimissioni” (ISTAT). Se da una parte oltre 307 mila persone si sono congedate da un contratto a tempo indeterminato, il tasso di occupazione si attesta a marzo 2022 al 59,9%, ma non si tratta di un lavoro stabile. Effettivamente gli occupati in Italia sono oltre 23 milioni, più di prima della pandemia, ma di questi, i dipendenti a termine sono 3 milioni 150 mila, una cifra che non si si vedeva dal 1977.
Secondo dati dell’INPS, tra gennaio e marzo 2022 sono state attivate 1.865.000 assunzioni, con un aumento del +43% rispetto allo stesso periodo del 2021. La crescita ha interessato tutte le tipologie contrattuali, in particolare le assunzioni di stagionali (+113%) e intermittenti (+85%),seguite da contratti per il tempo indeterminato (+44%) e apprendistato (+43%). Si tratta quindi per la maggior parte di contratti che non offrono stabilità ai lavoratori. A confronto, gli aumenti nelle altre categorie di assunzioni risultano essere contenuti: tempo determinato (+35%) e somministrati (+29%).
Allo stesso modo, sono in aumento anche gli irregolari. Un mondo parallelo che “vale” 202,9 miliardi di euro e rappresenta l’11,3% del Pil italiano. Secondo un di Confartigianato, è irregolare il 14% dei soggetti che svolgono attività indipendente (3.2 milioni),una quota che rappresenta il terzo settore più numeroso dell’economia italiana. Questi lavorano soprattutto nelle imprese artigiane, edilizia, estetica e autoriparazione.
Il fenomeno del lavoro sommerso riguarda da vicino tutte le regioni italiane. Nel Mezzogiorno il tasso di lavoro irregolare sull’occupazione totale è del 17,5%, nel Centro Nord il 10,7% e nel Nord Est il 9,2%. In fondo alla classifica c’è la Calabria, dove non è regolare un quinto (21,5%) degli occupati, seguita da Campania (18,7%) e Sicilia (18,5%). Al contrario, il tasso più basso di lavoro irregolare (8,4%) si registra nella Provincia autonoma di Bolzano (Confartigianato, 2022). Nonostante ciò, nel Nord si annida il maggior numero di evasori che si fingono imprenditori. La classifica regionale vede in testa la Lombardia, seguita da Campania (121.200), Lazio (111.500) e Sicilia (95.600). A livello provinciale, Roma detiene il primato con 84.000 irregolari, seguita da Napoli (59.500) e Milano (47.400), sono lavoratori non sono autorizzati a esercitare, che non hanno seguito percorsi di formazione né hanno titoli o certificati professionali, e non danno garanzia sulla sicurezza e qualità del lavoro.
La pandemia ha portato con sé dei forti cambiamenti nelle dinamiche del lavoro, tra questi il largo utilizzo dello smart working, un fenomeno che vedrà oltre 10 milioni di lavoratori italiani in mobilità entro la fine dell’anno, ma che ha comportato delle difficoltà in particolare per le donne (31%) secondo l’Osservatorio Nomisma-CRIF. Nonostante passi avanti e nuove iniziative, il divario di genere in Italia è tuttora più che presente: la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7% contro una media europea del 29,6%, in Italia lavora una donna su due, c’è un’alta percentuale di contratti part time (49,8%), elevata differenza salariale (stimata nel 5,6% dal World Economic Forum, ma per altre rilevazioni Eurostat al 12%), mancata possibilità di carriera (solo il 28% dei manager sono donna, peggio in Europa solo Cipro) e mancato accesso a formazione STEM (il 16% delle donne contro il 34% degli uomini).
L’accesso alla formazione è un fenomeno che tocca anche un’altra parte della popolazione che è particolarmente vulnerabile e lo è stata ancora di più durante la pandemia: i carcerati. Secondo il XVII rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone “Il carcere visto da dentro”, la maggioranza dei progetti formativi ha subito una battuta di arresto dovuta al divieto di ingresso di soggetti terzi all’interno dei penitenziari e alla mancata possibilità di effettuare formazione in videoconferenza, a differenza di quanto è invece accaduto per i corsi scolastici. Nel corso del primo semestre del 2020, in Italia, sono infatti stati attivati solo 92 corsi di formazione professionale rispetto ai 203 del secondo semestre del 2019, i partecipanti sono stati 758 rispetto ai 2.506 dei mesi precedenti, di fatto assistendo ad una diminuzione di oltre un terzo degli utenti che vi hanno potuto prendere parte.
Non sono solo i partecipanti a diminuire, ma anche il numero di corsi erogati e terminati: a partire dagli anni Novanta dove le percentuali degli iscritti sul numero dei presenti si aggiravano intorno al 7,75% del totale della popolazione detenuta, l’andamento poi è andato via via diminuendo, per raggiungere poi la percentuale dell’1,41% – la più bassa mai toccata – nel secondo semestre del 2020. Questa è una situazione che tocca tutte le Regioni, il maggior numero di corsi è stato attivato in: Piemonte, Lombardia, Sicilia e Marche.
Ad avere difficoltà ad accedere ad una formazione dedicata sono anche le persone diversamente abili e con difficoltà cognitive. In questo momento, per Valerio Mancini, tra gli autori della ricerca, la risposta la si trova nel digitale: “per favorire l’accesso al mondo del lavoro delle persone più fragili e vulnerabili, sarà necessario puntare su tecnologie che possano fare cose che vadano ‘oltre’, oltre all’età, oltre a patologie cliniche, oltre a problemi cognitivi, oltre al vedere e sentire, oltre al potersi muovere, oltre al poter parlare: questo è uno dei suoi più grandi valori”. Questo significa che il metodo formativo deve evolversi ed essere altamente innovativo, per esempio con l’utilizzo dell’IA.
L’ecosistema delle startup dell’Italia è cresciuto sempre più negli ultimi anni, avvicinandosi al miliardo di capitalizzazione. Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), a fine 2021 valeva già 938 milioni di euro, con una media di 64.898 euro a impresa. Tra i diversi settori, quello di servizi alle imprese costituisce la stragrande maggioranza delle startup innovative operanti in Italia (75%), tra le principali sottocategorie d’attività: produzione di software e consulenza informatica (37,4%), attività di ricerca e sviluppo (14,7%), attività dei servizi d’informazione (8,7%), e manifattura (16,6%).
Sempre secondo i dati del MISE, la Lombardia detiene il primato di startup innovative: ben 3.755 startup innovative (il 26,8% del totale), seguita da Lazio (11,6%) e Campania (8,9%). In fondo alla classifica ci sono il Molise con 79 startup innovative e la Valle d’Aosta con appena 19. Salta all’occhio Milano, provincia che conta 2.640 startup innovative, il 18,8% sul totale delle imprese. Seguono poi con netto distacco Roma (10,48%) e Napoli (4,45%). Nel 2021 sono +85.000 i lavoratori che hanno trovato impiego nelle nuove imprese, dimostrando il forte impatto delle startup nell’occupazione.
Tornando ai numeri sulla disparità di genere, si apprezza che le startup innovative in cui almeno una donna è presente nella compagine sociale sono il 42,6% del totale: una quota anch’essa inferiore, seppur in minor misura, a quella fatta registrare dalle altre nuove società di capitali (45,4%). I principali settori in cui operano le startup a trazione femminile sono: digital platforms (26%), salute (20%) e circular economy (18%).
Se si guarda alla situazione delle startup a livello europeo, si conferma il 2021 come anno record per investimenti, con una cifra di oltre $100 miliardi di capitale investito e 100 nuovi unicorni (startup con una valutazione di mercato oltre il miliardo di dollari). In Italia, a dicembre 2021, tenendo conto di round, crowdfunding e investimenti resi noti ai media da parte di business angels, si arriva alla cifra complessiva record di 1,392 miliardi investiti, nettamente superiore ai 700 milioni del 2019 e del 2020 (+50% circa), secondo Startup Italia. Anche se queste cifre dimostrano le grandi opportunità che le startup rappresentano, l’Italia ha solo un unicorno (Scalapay) e rimane indietro rispetto l’avanzamento in paesi come il Regno Unito dove solo nei primi nove mesi del 2021, ci sono stati 68 round da oltre 100 milioni di dollari, pari al 37% di tutti i round di questa portata in Europa.
Il divario netto esistente fra l’Italia e alcuni altri paesi europei per quanto concerne gli investimenti in startup è lo specchio di un sistema che presenta ancora oggi delle criticità rilevanti. Per Giacomo Salvanelli, uno degli autori della ricerca: “in Italia non si investe ininnovazione quanto nel resto d’Europa. Burocrazia, pressione fiscale e bassi investimenti sono un grande limite. Le startup in Italia aumentano ma non crescono di dimensioni”. A confermare la difficoltà nel creare una startup in Italia sono i dati del Centro studi di Unimpresa (2021) che rivelano che per avviarne una, ci vogliono circa 4.155€, una cifra 10 volte superiore rispetto alla Germania (466€) e oltre 15 volte maggiore rispetto a quanto si spende in Francia (270€), e ben 188 volte in più della Croazia (22€).
L’Italia, per essere più sostenibile e innovativa, richiede ai lavoratori e agli imprenditori di possedere maggiori e sempre più specifiche competenze. Secondo il World Economic Forum (WEF), entro il 2025 si perderanno 85 milioni di posti di lavoro, a fronte però della creazione di ben 97 milioni di nuovi posti, strutturati per meglio adattarsi alla nuova divisione del lavoro fra esseri umani, macchine e software. La quota di competenze di base destinata a cambiare sarà del 40%, per cui il 50% di tutti i lavoratori dovrà riqualificarsi. Per Emanuele Cacciatore, Docente del Master in Human Resources Management della Rome Business School, “il numero di competenze richieste per un singolo lavoro sta aumentando anno su anno del 10%, riducendo drammaticamente la vita utile delle hard skills. Per fare fronte a questo fenomeno, idipartimenti HR devono poter prevedere le skill di cui ci sarà bisogno per essere pronti a formare i propri dipendenti, implementando approcci e strumenti moderni per migliorare l’esperienza di apprendimento”.