A livello europeo, sono sempre più le aziende a lasciare la Borsa: aumenta il delisting, la rimozione di titoli dal mercato regolamentato. Un fenomeno che pesa sull’accesso al capitale, sulla liquidità dei mercati e sulle opportunità per gli investitori.
Dal 2010 al 2022 il numero di società quotate nell’UE è sceso di circa il 15% (da 7.400 a poco più di 6.300), mentre nel solo 2023 i mercati Euronext hanno registrato 110 delisting, quasi triplicati rispetto al 2022, con 467 miliardi di euro di capitalizzazione scomparsi dal listino. Nel periodo 2019-2023, sui mercati Euronext si sono verificate 355 operazioni di delisting (+8,5% su base annua composta). Meno società quotate significano meno opportunità di investimento e un mercato più concentrato, dove la liquidità si riduce e la trasparenza si affievolisce. Quindi, ogni delisting intacca l’intero ecosistema finanziario, rendendo più difficile per le PMI raccogliere capitali e aumentando la dipendenza dal credito bancario o dal private equity. Questo il tema centrale del report di Rome Business School “Il fenomeno dei delisting in Europa: dinamiche, attori e implicazioni per i mercati dei capitali” a cura di Francesco Baldi, Docente dell’International Master in Finance di Rome Business School, Massimiliano Parco, Economista, Centro Europa Ricerche e Valerio Mancini, Direttore del Centro di Ricerca di RBS.
Per capire meglio il peso dei delisting, è utile ricordare che il tutto accade su Euronext, che non è un mercato unico, ma una piattaforma articolata in tre segmenti: il Main Market, dove si concentrano le grandi società; Euronext Growth, pensato per le PMI; e Euronext Access, dedicato alle imprese più piccole e in fase iniziale
Andando a guardare da vicino alle singole piazze europee, emerge un quadro variegato, fatto di dinamiche molto diverse tra loro. Parigi resta la Borsa più colpita: nel 2023 ha registrato 22 delisting sul Main Market, con oltre 404 miliardi di euro di capitalizzazione rimossa, quasi l’intero ammontare europeo, superando persino il picco del 2019 (392 miliardi). Milano si distingue invece per la quantità: 24 operazioni complessive nel 2023, in gran parte concentrate nel segmento dedicato alle PMI (16) il cui impatto economico, però, è stato molto polarizzato: più di 10 miliardi di euro di capitalizzazione persi sul listino principale, contro meno di un miliardo sull’Euronext Growth Milan.
Ad Amsterdam la situazione è opposta: il 2023 ha segnato il record quinquennale di 13 delisting, ma con un valore economico minimo, appena 6,5 miliardi di euro, ben lontano dai 75 miliardi del 2020 e dai 90 del 2022. Infine, Bruxelles si conferma marginale, con appena 7 delisting e circa 4,9 miliardi di capitalizzazione rimossa, lontani dal picco del 2019 (7,6 miliardi). Il quadro è chiaro: non è il numero di operazioni a determinare l’impatto sistemico, ma la natura e la dimensione delle società coinvolte.
“Il fenomeno dei delisting in Europa non può essere letto solo come un segnale di debolezza del mercato azionario regolamentato, ma anche come il risultato di un processo di riorganizzazione strategica, in cui le imprese valutano l’opportunità della quotazione alla luce dei mutamenti del contesto competitivo, finanziario e regolamentare”, spiega Francesco Baldi.
Tra gli attori maggiormente coinvolti nel fenomeno di delisting in Europa gli attivisti e gli investitori istituzionali. Gli attivisti sono fondi hedge o investitori che, pur con partecipazioni ridotte, spingono le aziende a cambiare governance o strategia, fino a favorire il delisting. Accanto a loro, gli investitori istituzionali, fondi pensione, assicurazioni e asset manager, orientano invece le imprese verso sostenibilità, ESG e strategie di lungo periodo.
Nel primo semestre del 2025 si sono registrate 129 campagne attiviste a livello globale, un dato in lieve calo (-12% sull’anno precedente) ma con un ruolo sempre più rilevante in Europa (Barclays, 2025). I modelli previsivi di Alvarez & Marsal individuano già oltre 140 potenziali target europei nei prossimi 18 mesi.
Il 2023 è stato l’anno record: secondo Lazard, si sono contate 235 campagne attiviste nel mondo, di cui circa il 25% in Europa, in crescita del 12% rispetto al 2022. Regno Unito e Francia restano i mercati più vivaci, seguiti da Germania e Paesi Bassi. Non a caso, per S&P Global Market Intelligence, negli ultimi cinque anni oltre il 30% dei delisting in Europa è stato preceduto da campagne di questo tipo o da pressioni significative dei grandi fondi.
Il risultato è che molte aziende, strette tra logiche di breve termine e spinte strategiche, scelgono di ristrutturarsi lontano dai riflettori della Borsa, dando vita a operazioni di going private.
“Questo processo da un lato offre maggiore libertà gestionale, ma dall’altro riduce la trasparenza dei mercati e restringe le opportunità di investimento per il pubblico retail”, afferma Massimiliano Parco.
In prospettiva, l’attivismo sarà sempre più guidato da due direttrici principali: l’adozione di tecnologie emergenti, come intelligenza artificiale e automazione, e l’adeguamento ai nuovi requisiti europei sulla sostenibilità, a partire dalla Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD). “Il ridisegno dell’identità aziendale non sarà quindi un mero esercizio di marketing, ma un processo che coinvolgerà innovazione, governance e relazioni con tutti gli stakeholder”, conclude Baldi.
Il 2025 conferma la debolezza del mercato primario europeo. Nel primo semestre si sono registrate soltanto 16 IPO (initial public offering), con una raccolta di 3,1 miliardi di euro, contro gli 11,5 miliardi dello stesso periodo del 2024 (PwC, 2025). A livello globale, la World Federation of Exchanges segnala un calo del 20,9% delle nuove quotazioni rispetto al semestre precedente: appena 570 IPO, per un totale di 66,4 miliardi di dollari raccolti (WFE, 2025).
Il quadro italiano riflette questa fragilità: nel 2023 si sono contati 27 delisting a fronte di sole 21 nuove quotazioni, con un saldo negativo che conferma le difficoltà strutturali del mercato (Consob, 2024). Questa contrazione ha effetti diretti sul sistema finanziario. La pressione esercitata dagli attivisti, pur stimolando la governance, può aumentare le oscillazioni di breve periodo, come mostra il caso della TIM, dove le spinte alla ristrutturazione si sono intrecciate con le difficoltà di stabilità azionaria.
In parallelo, si rafforza il ruolo del capitale alternativo. Il private equity è sempre più centrale, mentre molte imprese italiane preferiscono collocarsi su segmenti come Euronext Growth Milan (EGM) o STAR, o diventano oggetto di acquisizioni da parte di fondi privati. Nel solo 2024, il mercato italiano ha raccolto 3,9 miliardi di euro attraverso 22 nuove quotazioni sull’EGM: una cifra rilevante, ma ancora contenuta rispetto ai principali mercati europei (Global Legal Insights, 2025). Un trend sostenuto in particolare nei settori tech e industriale, dove le transazioni private sono in forte crescita.
Il delisting non è sempre un punto d’arrivo: casi come Fnac Darty in Francia o Douglas in Germania mostrano come un periodo di gestione privata possa rafforzare le aziende e favorirne il ritorno in borsa. In questo scenario il private equity gioca un ruolo centrale: nel 2024 in Italia circa il 40% delle operazioni di M&A sopra i 100 milioni di euro ha visto il coinvolgimento di fondi (AIFI, 2025).
Accanto a queste dinamiche crescono i mercati alternativi, come Euronext Growth Milan, che nel 2024 ha registrato 22 nuove quotazioni per un totale di 3,9 miliardi di euro. Tuttavia, la riduzione delle società quotate riduce la liquidità complessiva: in Italia il turnover medio giornaliero è calato del 12% tra il 2021 e il 2024 (Consob, 2025).
Dal 2010 al 2022 le società quotate nell’UE sono scese di circa un -15% mentre la capitalizzazione si è concentrata su pochi grandi gruppi. Crisi finanziaria, pandemia e instabilità geopolitica hanno accentuato questa dinamica, con un saldo netto negativo tra nuove IPO e delisting.
Le imprese scelgono di lasciare la Borsa per i costi di compliance, la sottovalutazione dei titoli e la possibilità di reperire capitali alternativi attraverso private equity o debito privato. Per l’Italia, caratterizzata da una prevalenza di PMI, che rappresentano oltre il 92% delle imprese attive (Istat, 2024), questo significa minori opportunità di accesso al capitale e una crescente dipendenza dal credito bancario o dagli investitori privati.
Guardando avanti, l’Europa si muove verso un modello ibrido, dove pubblico e privato coesistono. Relisting strategici, private equity e M&A continueranno a giocare un ruolo chiave, soprattutto nei settori tecnologico, energetico e manifatturiero. In definitiva,
“la scelta di quotarsi, delistarsi o operare su mercati alternativi sarà guidata dal bilanciamento tra flessibilità e capitali privati da un lato, e la necessità di preservare liquidità e trasparenza dall’altro”, conclude Massimiliano Parco.